Giornata memoria

GIORNATA DELLA MEMORIA 

27 GENNAIO 2022

“Nemmeno noi, che abbiamo visto, volevamo credere. Ho sperato per anni di riuscire a dimenticare: poi ho capito che sarebbe stato da colpevole, diventare complice. Così, ricordo.

 

È significativo, nella ripetitività della commemorazione per la Giornata della Memoria, ripeterci queste parole, affinché l’assuefazione e l’indifferenza non abbiano il sopravvento sul nostro tempo e quindi su di noi.

Sono state pronunciate dal soldato russo Yacov Vincenko che, all’età di 19 anni, è stato il primo a varcare i cancelli di Auschwitz, il 27 gennaio 1945.

 

Nessuno meglio di lui ci lascia una testimonianza e genera in noi la necessità di perpetrare questa “testimonianza” oggi, domani.

Ricordare è conoscere e conoscere è ricordare. 

 

È nostro dovere vincere l’oblio, la dimenticanza e restituire, nel ricordo, il nostro tributo morale a tutti coloro che hanno subito un martirio tanto orribile e insensato.

 

E allora ecco che le giovani voci dei nostri alunni, nello scorrere inesorabile del tempo, acquistano quel senso che andiamo cercando e restituiscono alle vittime  la dovuta dignità.

 

Vi invitiamo ad ascoltarle nelle AUDIO-LETTURE che seguono. 

Senza la dignità, l’identità viene cancellata.

 

Piero Terracina

 

Piero Terracina ( Roma, 12 novembre 1928 – Roma, 8 dicembre 2019). Ultimo di quattro figli,  nell’autunno del 1938  a causa dell’emanazione delle leggi razziali fasciste, Piero, come tutti gli alunni e i docenti ebrei, fu espulso dalla scuola pubblica. Dopo essere sfuggito al rastrellamento del ghetto di Roma il 16 ottobre 1943 fu arrestato il 7 aprile 1944 insieme a tutta la famiglia.

Fu deportato nel campo di sterminio di Auschwitz Il-Birkenau, da cui venne liberato nel gennaio dell’anno successivo, unico sopravvissuto dei suoi familiari.  Rientrato nella comunità ebraica romana, è stato testimone instancabile della Shoah.

CACCIATO DALLA SCUOLA A 10 ANNI: “Perché cosa ho fatto?”  “Perché sei ebreo”.            

IL TESTO
Ero un ragazzo felice, l’ultimo di una famiglia di otto persone, protetto dall’affetto di tutti. Tre giorni prima avevo compiuto 10 anni. il 15 novembre come tutti gli altri giorni entrai in classe e mi diressi verso il mio banco ed ebbi la sensazione che i miei compagni mi osservassero in modo insolito. L’insegnante fece l’appello ma non chiamò il mio nome; soltanto alla fine mi disse che dovevo uscire e alla mia domanda: ‘Perché? Cosa ho fatto?’ Mi rispose : ‘Perché sei ebreo”.
Mi sentii smarrito, provavo rabbia e mi rendevo conto che stavo subendo una terribile ingiustizia. Ero stato educato all’ amore per lo studio e mia madre non tralasciava occasione per ricordarmi che riuscire nello studio era il mezzo per riuscire nella vita e pensai subito alle sue parole.  Andai con il pensiero al mio futuro e mi vedevo costretto a dover svolgere i lavori più umili per vivere. E poi gli amici. Erano tutti lì in quella classe. Avrei potuto averli ancora come amici? No, non fu possibile. Non è mai arrivata una telefonata di un genitore per avere notizie. Tutti spariti.  Ci sarà pure stato qualcuno che non era fascista, eppure nessuno ha mai mostrato indignazione per quello che stava accadendo ma neppure solidarietà. Evidentemente era una cosa che non riguardava la gente, ma riguardava gli altri e gli altri eravamo noi Ebrei.


Lello di Segni

 

Lello Di Segni ( Roma, 4 novembre 1926 – Roma, 26 Ottobre 2018) Lello venne catturato assieme alla sua famiglia durante la razzia del quartiere ebraico della città, in quello che rappresenta il momento più tragico della Comunità ebraica di Roma dell’epoca moderna. Deportato a Auschwitz-Birkenau, fu separato dai tre fratelli più piccoli e della madre, rimanendo con il padre nel lager nazista per un mese fino a quando non venne spedito al ghetto di Varsavia a liberare le strade dalle macerie.

Dopo quasi un anno nella capitale polacca, un nuovo trasferimento forzato lo porta prima al campo di Allach e poi a Dachau, lager da cui fu liberato dall’esercito degli Stati Uniti. 16 OTTOBRE 1943: “Il mio ricordo è lo spavento di quando aprii la porta”.

IL TESTO
Il primo ricordo è lo spavento di quando aprii la porta. C’erano due tedeschi in divisa.
Non parlavano italiano, ma a gesti si fecero capire molto bene.  Eravamo tutti e sei in casa: io, mio padre, mia madre e tre fratelli: Angelo, Mario e Graziella. Si sono presentati e con una lista di nomi hanno iniziato a perlustrare le stanze, convinti che nascondessimo qualcuno.  Dentro gli armadi, in soffitta, in cantina. Niente. C’eravamo solo noi, gli altri parenti erano scappati le settimane precedenti. Poi con il mitra dietro la schiena siamo scesi in strada e saliti sui camion». Indietro siamo tornati solo io e mio padre. Ricordo che riuscii a prendere giusto qualche vestito.  Poi, due anni di concentramento da Auschwitz a Birkenau, Halle e Dachau. Mi sono salvato solo perché  ho lavorato tanto.Facevo tutto quello che mi dicevano i tedeschi, anche se non volevo.  Ma avevo troppa paura che mi massacrassero di botte. Era l’unico modo per andare avanti”.  Tra i ricordi dell’orrore dei campi, ”una mattina mi svegliai scalzo. Mi avevano rubato le scarpe. Andai a lavorare lo stesso con delle pezze intorcinate ai piedi ma non ce la facevo.  Alla fine ho dovuto rubarle a un altro poveretto”. Finalmente, il 10 giugno del 1945, la liberazione.
Quando arrivai a Roma, non sa la gioia di riabbracciare mio padre. In questi anni ho cercato di dimenticare, ma non ce l’ho fatta.


Settimia Spizzichino

 

Settimia Spizzichino  ( Roma, 15 aprile 1921 – Roma, 3 luglio 2000)  Il 16 ottobre 1943 fu deportata insieme alla madre, due sorelle e una nipotina durante il rastrellamento del ghetto.. Il 23 ottobre, dopo sei giorni di viaggio, nel campo Auschwitz-Birkenau iniziò la selezione dei deportati di Roma; mentre la madre e la sorella Ada con la bambina in braccio furono messe nella fila destinata immediatamente alla camera a gas, Settimia con la sorella Giuditta finì nella fila degli abili al lavoro e ricevette il numero 66210. Delle 47 donne rimaste dopo questa prima selezione, Settimia fu l’unica a tornare e a queste compagne di prigionia ha poi dedicato il suo libro di memorie.

SETTIMIA, INFATICABILE TESTIMONE. “Ci sono cose che tutti vogliono dimenticare. Ma io no”.

IL TESTO
Ci sono cose che tutti vogliono dimenticare. Ma io no.
Io della mia vita voglio ricordare tutto, anche quella terribile esperienza che si chiama Auschwitz: due anni in Polonia (e in Germania), due inverni, e in Polonia l’inverno è inverno sul serio, è un assassino.., anche se non è stato il freddo la cosa peggiore.
Tutto questo è parte della mia vita e soprattutto è parte della vita di tanti altri che dai Lager non sono usciti. E a queste persone io devo il ricordo: devo ricordare per raccontare anche la loro storia. L’ho giurato quando sono tornata a casa; e questo mio proposito si è rafforzato in tutti questi anni, specialmente ogni volta che qualcuno osa dire che tutto ciò non è mai accaduto, che non è vero.

Ho una buona memoria. E poi quei due anni li ho raccontati tante volte: ai giornalisti, alla televisione, ai politici, ai ragazzi delle scuole durante i molti viaggi che ho fatto per accompagnarli ad Auschwitz… anche se non sempre sono entrata nei particolari. Ad Auschwitz si desidera tornare  e a qualcuno sembra strano. Ma perché? È come andare al cimitero a portare un fiore e una preghiera.
Quando si arriva ad Auschwitz parlano le cose. Le poche che sono rimaste. C’è un museo, ma i forni crematori, le camere a gas, le costruzioni in muratura sono state distrutte. La prima volta che ci sono tornata ho provato più delusione che emozione, non riconoscevo il posto.
Quarantotto eravamo, e sono uscita viva soltanto io. Molte di loro le ho viste morire, di altre so che fine hanno fatto. Come raccontare a una madre, a un padre, che la loro figlia di vent’anni è morta di cancrena per le botte ricevute da una Kapò? Come descrivere la pazzia di alcune di quelle ragazze a coloro che le amavano? Adesso molti dei genitori, dei fratelli, dei mariti, non ci sono più; le ferite non sono più così fresche. A quelli che restano spero di non fare troppo male. 
Ma adesso devo mantenere la promessa che ho fatto a quarantasette ragazze che sono morte ad Auschwitz, le mie compagne di lavoro. E a tutti gli altri milioni di morti dei Lager nazisti.


Primo Levi – L’annuncio della partenza dal campo di Fossoli

 

Primo Levi ( Torino, 31 luglio 1919 – Torino, 11 Aprile 1987 ) Giovane chimico ebreo, nel corso della giovinezza partecipa alla Resistenza. Viene catturato dai fascisti nel dicembre 1943 e internato nel campo di concentramento di Fossoli, vicino a Modena, per 5 mesi. Nel 1944 la gestione del campo passa nelle mani dei tedeschi, i quali decidono di trasferire gli internati ad Auschwitz. Forse grazie alla sua specializzazione, riesce a sopravvivere. Ritornato in Italia, inizia a scrivere quello che è il suo romanzo più famoso: Se questo è un uomo, pubblicato nel 1947, in cui testimonia le infamie dei campi di concentramento nazisti dove ogni azione era improntata alla distruzione della dignità dei prigionieri.

SE QUESTO E’ UN UOMO -“IL VIAGGIO”- : L’annuncio della partenza dal campo di Fossoli.

IL TESTO
Il giorno 20 febbraio  1944  i tedeschi avevano ispezionato il campo con cura (…)
 Il mattino del 21 si seppe che l’indomani gli ebrei sarebbero partiti. Tutti: nessuna eccezione. Anche i bambini, anche i vecchi, anche i malati. Per dove, non si sapeva. Prepararsi per quindici giorni di viaggio. Per ognuno che fosse mancato all’appello, dieci sarebbero stati fucilati.Soltanto una minoranza di ingenui e di illusi si ostinò nella speranza: noi avevamo parlato a lungo coi profughi polacchi e croati, e sapevamo che cosa voleva dire partire.
(…) E venne la notte, e fu una notte tale, che si conobbe che occhi umani non avrebbero dovuto assistervi e sopravvivere. Tutti sentirono questo: nessuno dei guardiani, né italiani né tedeschi, ebbe animo di venire a vedere che cosa fanno gli uomini quando sanno di dover morire.Ognuno si congedò dalla vita nel modo che più gli si addiceva. Alcuni pregarono, altri bevvero oltre misura, altri si inebriarono di nefanda ultima passione. Ma le madri vegliarono a preparare con dolce cura il cibo per il viaggio, e lavarono i bambini, e fecero i bagagli, e all’alba i fili spinati erano pieni di biancheria infantile stesa al vento ad asciugare; e non dimenticarono le fasce, e i giocattoli, e i cuscini, e le cento piccole cose che esse ben sanno, e di cui i bambini hanno in ogni caso bisogno.
Non fareste anche voi altrettanto? Se dovessero uccidervi domani col vostro bambino, voi non gli dareste oggi da mangiare?


Primo Levi – L’arrivo al campo

 

SE QUESTO E’ UN UOMO di Primo Levi è un capolavoro autobiografico e memorialistico pubblicato per la prima volta nel 1947 e che narra la testimonianza sconvolgente dell’esperienza dell’autore partigiano ed ebreo Primo Levi nel campo di concentramento di Auschwitz. Catturato dai fascisti il 13 dicembre 1943 è portato nel campo di concentramento di Fossoli (Modena) dove gli viene annunciato che sarà deportato con gli altri ebrei verso una destinazione ignota. Il viaggio dura 15 giorni. Arrivati alla stazione di destinazione, i deportati subiscono la prima selezione e vengono divisi.

SE QUESTO E’ UN UOMO -“IL VIAGGIO”- : L’arrivo al campo.

IL TESTO
Dalla feritoia, nomi noti e ignoti di città austriache, Salisburgo, Vienna; poi cèche, infine polacche. Alla sera del quarto giorno, il freddo si fece intenso: il treno percorreva interminabili pinete nere, salendo in modo percettibile. … Nessuno tentava più, durante le soste, di comunicare col mondo esterno: ci sentivamo ormai «dall’altra parte». Vi fu una lunga sosta in aperta campagna, poi la marcia riprese con estrema lentezza, e il convoglio si arrestò definitivamente, a notte alta, in mezzo a una pianura buia e silenziosa. Venne a un tratto lo scioglimento. La portiera fu aperta con fragore, il buio echeggiò di ordini stranieri, e di quei barbarici latrati dei tedeschi quando comandano, che sembrano dar vento a una rabbia vecchia di secoli. Ci apparve una vasta banchina illuminata da riflettori. Poco oltre, una fila di autocarri. Poi tutto tacque di nuovo. Qualcuno tradusse: bisognava scendere coi bagagli, e depositare questi lungo il treno. In un momento la banchina fu brulicante di ombre: ma avevamo paura di rompere quel silenzio, tutti si affaccendavano intorno ai bagagli, si cercavano, si chiamavano l’un l’altro, ma timidamente, a mezza voce.Una decina di SS stavano in disparte, l’aria indifferente, piantati a gambe larghe. A un certo momento, penetrarono fra di noi, e, con voce sommessa, con visi di pietra, presero a interrogarci rapidamente, uno per uno, in cattivo italiano. Non interrogavano tutti, solo qualcuno. «Quanti anni? Sano o malato? » e in base alla risposta ci indicavano due diverse direzioni. Tutto era silenzioso come in un acquario, e come in certe scene di sogni. Ci saremmo attesi qualcosa di più apocalittico: sembravano semplici agenti d’ordine. Era sconcertante e disarmante. Qualcuno osò chiedere dei bagagli: risposero «bagagli dopo»; qualche altro non voleva lasciare la moglie: dissero «dopo di nuovo insieme»; molte madri non volevano separarsi dai figli: dissero «bene bene, stare con figlio». Sempre con la pacata sicurezza di chi non fa che il suo ufficio di ogni giorno; ma Renzo indugiò un istante di troppo a salutare Francesca, che era la sua fidanzata, e allora con un solo colpo in pieno viso lo stesero a terra; era il loro ufficio di ogni giorno.


Engel – Un ebreo tedesco

                                                                                             

Engel: forse è questo il suo nome.  Scorrendo tra le pagine alla ricerca di testimoni e sopravvissuti della Shoah, salta fuori questo racconto. E’ la  narrazione della stessa tragedia umana di migliaia di ebrei, strappati alle loro case, alla loro famiglie, alle loro vite. Un destino comune.

Obbligati a  salire sui treni della morte, tra urla di soldati e cani, percorrevano centinaia di chilometri, ammassati in treni piombati, su vagoni per il trasporto del bestiame, riempiti fino a non riuscire quasi a sedersi. Così viaggiavano per diversi giorni, con un po’ di cibo, poca acqua, senza finestre, escrementi a terra, vicino ai corpi di chi non ce l’aveva fatta, verso l’orrore dei campi di concentramento.

E nel buio della più profonda disperazione, non può che riscaldare il cuore il calore e la forza di un abbraccio, capace di stringere gli uomini, gli uni agli altri.

UN TRENO  VERSO AUSCHWITZ  : “Sai perché siamo vivi?”    

IL TESTO
Sai perché sono vivo oggi? Ero solo un adolescente quando i nazisti in Germania uccidevano senza pietà gli ebrei. I nazisti ci portarono in treno ad Auschwitz. 
Di notte faceva un freddo mortale nello scompartimento. Siamo stati lasciati per molti giorni nei vagoni senza cibo, senza letti e quindi senza modo di riscaldarci.
Nevicava ovunque. Il vento freddo ci gelava le guance ogni secondo. Eravamo centinaia in quelle notti fredde e orribili. Niente cibo, niente acqua, niente riparo. Il sangue si è congelato nelle nostre vene. Accanto a me c’era un anziano ebreo molto amato nella mia città. Era tutto tremante e aveva un aspetto terribile. Ho avvolto le mie braccia intorno a lui per tenerlo al caldo. L’ho abbracciato forte per dargli un po’ di calore. Gli ho massaggiato le braccia, le gambe, il viso, il collo. L’ho implorato di rimanere vivo. L’ho incoraggiato. In questo modo ho tenuto l’uomo al caldo per tutta la notte. Io stesso ero stanco e infreddolito. Le mie dita erano rigide, ma non ho smesso di massaggiare il corpo di quest’uomo per riscaldarlo.
Molte ore passarono così. Finalmente arrivò il mattino, il sole cominciò a splendere. Ho guardato intorno a me per vedere altre persone. Con mio orrore, tutto quello che potevo vedere erano cadaveri congelati. Tutto quello che potevo sentire era il silenzio della morte. La notte gelida li aveva uccisi tutti. Erano morti di freddo. Solo due persone sono sopravvissute: il vecchio e io. Il vecchio è sopravvissuto perché l’ho tenuto al caldo, e io sono sopravvissuto perché l’ho tenuto al caldo.
Lasciate che vi dica il segreto per sopravvivere in questo mondo? Quando riscaldate il cuore degli altri, allora anche voi sarete riscaldati. Quando sostieni, rafforzi e ispiri gli altri, allora anche tu sarai sostenuto, rafforzato e ispirato nella tua vita. 


Andra e Tatiana Bucci

 

 

Bucci Tatiana  (Fiume, 19 settembre 1937) e Andra  (Fiume, 1º luglio 1939) sono due sorelle italiane di origine ebraica, superstiti dell’Olocausto, testimoni attive della Shoah italiana e autrici di memorie sulla loro esperienza ad Auschwitz.

Scambiate per gemelle, vengono tenute in vita per essere usate come cavie per gli esperimenti condotti dal dottor Josef Mengele e sono tra i pochi a sopravviverne.

 

NOI BAMBINE AD AUSCHWITZ “Ci tolsero tutti i vestiti…”    

IL TESTO
Ci tolsero tutti i vestiti e ce ne diedero altri che non erano i nostri. Vestiti brutti, sporchi, che puzzavano e ci cadevano di dosso. Forse erano state giacche indossate da adulti prima di noi. Erano stati tolti a dei morti, ma noi non lo potevamo sapere ,e comunque non ci riscaldavano né ci riparavano dal freddo, e in più ci pungevano la pelle. Soprattutto le scarpe erano malridotte, tutte bucate e larghe. Ci sfuggivano dai piedi e ci costringevano a camminare con la punta rattrappita, per non perderle. Ma dovevamo procedere svelte, in mezzo alle urla e al fumo. Poi ci portarono in una baracca dove c’era un piccolo tavolo. Lì sedeva qualcuno con la penna e il calamaio, intento a scrivere i nostri nomi su un libro. Vicino a lui sedeva qualcun altro, che ci prese il braccio per marchiarci il numero. Usarono una specie di penna con piccoli aghi, che lasciava il numero con dei puntini blu, ma quasi non ce ne accorgemmo.
…In verità non ricordo di aver mai né pianto né riso, ad Auschwitz. 
E non ricordo il giorno preciso in cui mamma non venne più, ma quando accadde credo di non aver pensato a niente.  Era talmente cambiata, quando la vedevamo nel campo, senza più i capelli, talmente smagrita ed imbruttita che non ci consolava vederla. Non era un bel momento della giornata quello in cui veniva. Del resto, lì nel campo non c’era nessun bel momento, in nessuna giornata. Mamma semplicemente non venne più, io non pensai niente ma dentro di me sapevo che doveva essere finita in mezzo a quei mucchi di morti, che si vedevano in giro dovunque.


Liliana Segre

 

 

Liliana Segre ( Milano, 10 settembre 1930) è un’ attivista e politica italiana, superstite dell’Olocausto e testimone della Shoah italiana. Dal 15 aprile 2021 presidente della Commissione straordinaria per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza. Racconta gli orrori subiti in seguito alle leggi razziali fasciste del 1938, sin da quando a 8 anni viene espulsa dalla scuola elementare. Il 10 Dicembre 1943, la bambina insieme al padre e due cugini, tenta la fuga in Svizzera, a Lugano, ma un ufficiale non permette loro di valicare il confine. Il giorno seguente le autorità li arrestano.  Il 30 Gennaio 1944  viene deportata dal binario 21 della stazione di Milano Centrale al campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau. Delle 605 persone con le quali era partita, la donna è tra i 25 sopravvissuti.

SCOLPITELO NEL VOSTRO CUORE : Non ho mai perdonato, come non ho dimenticato”

IL TESTO
Nel lager, quando non si ha niente, si ha solo il proprio corpo che dimagrisce a vista d’occhio, è molto difficile, salvo che nei romanzi, formare amicizie perché la paura di morire per un passo falso o un’occhiata, ti fa diventare quello che i tuoi aguzzini vogliono che tu sia: che tu diventi disumana, egoista. Dopo il distacco da mio padre il terrore di diventare amico di qualcuno e poi perderlo mi faceva preferire la solitudine, io avevo paura di perdere ancora qualcosa. Quando si toglie l’umanità alle persone bisogna astrarsi e togliersi da lì col pensiero se si vuole vivere.   Scegliere sempre la vita. Io sono viva per caso.  Perché tutte sceglievano la vita, poche quelle che si sono suicidate anche se era facilissimo.  Non ho mai perdonato, come non ho dimenticato, certe cose non sono mai riuscita a perdonarle. Il campo di sterminio funzionava alla perfezione, da anni, non c’era il minimo errore. Cominciammo a capire che dovevamo cominciare a dimenticare il proprio nome, che nella tradizione ebraica ha un significato. Mi venne tatuato un numero sul braccio e dopo tanti anni si legge ancora bene, 75190.   E dovemmo subito impararlo in tedesco. Quando entrai ad Auschwitz non avevo ancora studiato Dante, lo studiai dopo, ed eravamo condannate a delle pene ma non c’era il contrappasso: pensavo di essere impazzita.   Quel giorno, il 1° Maggio 1945, mentre succedeva l’incredibile, passò accanto a me il comandante del campo. Non ho mai saputo il suo nome, non mi interessavo dei nomi delle persone. Per me lui era il Male, e basta. Il nazista si spogliava vicino a me, si era messo addirittura in mutande, perché faceva caldo. E io lo guardavo, incredula. Lo guardavo mentre gettava la divisa lontano e indossava i suoi vestiti civili, dopo essere stato un carnefice. Buttò via anche la pistola. La lanciò non distante da me, in terra. Per un momento ho provato una tentazione fortissima, come non mi sarebbe mai più capitato nella vita. Avrei voluto raccogliere quella pistola e sparargli. Potevo farlo. È stato un attimo, ma poi ho capito. Io non ero come lui. Non ero come il mio assassino.
Da allora sono diventata donna libera e di pace con cui ho convissuto fino ad adesso. 


Sami Modiano

 

Sami Modiano ( Rodi, 18 Luglio 1930) Testimone diretto degli orrori di Auschwitz-Birkenau, il 18 luglio 2020 ha compiuto 90 anni e ha ricevuto il riconoscimento del capo dello Stato. Nel 1944 era a Rodi, all’epoca colonia italiana, quando i tedeschi deportarono tutti gli ebrei dell’isola nel campo nazista. Tra di loro c’erano anche Sami Modiano, la sorella 16enne e il padre. Il 3 agosto 1944  gli ebrei vennero caricati sui treni, stipati nel buio soffocante dei vagoni piombati, diretti verso il campo nazista di Birkenau. Nel campo morirono sia la sorella sia il padre di Sami Modiano. Riuscì a sopravvivere, non senza sensi di colpa, e da allora ha dedicato la sua vita a raccontare ai ragazzi la sua storia.

INTERVISTA A SAMI MODIANO : “Spero di aver pagato abbastanza, affinché questo non succeda mia più!”

IL TESTO
Non sarebbe dovuto rimanere in vita nessuno, nessuno a testimoniare ai russi di quello che avevamo visto e di quello che avevamo sopportato.
Ma c’è stato il miracolo: mi accasciai a terra perché non ce la facevo più a tenermi in piedi – ero diventato uno scheletro, un morto vivente,  quando avvenne il miracolo.
Io ce l’ho fatta. Non so spiegarmi come. Due persone, due prigionieri, hanno fatto una cosa che non ha una spiegazione: si sono inchinati. Io non mi aspettavo nessun aiuto – ma non per cattiveria e nemmeno per egoismo. In quei casi ognuno di noi, cercava di salvare la propria pelle; nessuno aveva la possibilità di aiutare il prossimo. Io non mi aspettavo nessun aiuto, eppure l’hanno fatto ugualmente.  Mi hanno tirato su, mi hanno trascinato per quegli ultimi metri che mi mancavano per arrivare ad Auschwitz e poi si sono accorti che non avrebbero più potuto continuare a trascinarmi, e mi hanno abbandonato là, in un angolo, dove c’erano altri cadaveri.  E là sono rimasto fino a quando sono entrati i russi. Non conoscevo quei due uomini, non li avevo mai visti. Non ho avuto neanche il tempo di ringraziarli, questi due prigionieri che io ho chiamato angeli custodi! I tedeschi credevano che io fossi un cadavere come tutti gli altri, là, per terra, perché avevo perso i sensi: hanno visto che nessuno si muoveva e hanno lasciato Birkenau proseguendo la “marcia della morte”.
…..Io ho una piaga che non si chiuderà mai più. Ho i miei silenzi, i miei incubi, le mie depressioni. Continuo ancora a soffrire. Specialmente quando incontro i ragazzi e devo spiegare tutto questo: per me è un dolore enorme, ma lo faccio. Lo faccio perché ho capito che il Padre Eterno mi ha scelto per trasmettere a questi ragazzi, che fanno parte di questa nuova generazione la memoria di ciò che ho vissuto, perché non si ripeta.  Perché esistono oggi persone che negano, e questo per un sopravvissuto è un dolore enorme. Quello che mi distrugge è quando a negare la storia sono persone di grandissima cultura: questo, veramente, mi porta indietro.  Mi porta indietro …
Io avevo 14 anni quando sono uscito vivo da quell’inferno, ed avevo detto a me stesso, rimasto solo al mondo:
“Spero di aver pagato abbastanza, affinché questo non succeda mia più!”.


Primo Levi – I sommersi e i salvati

 

I Sommersi e i salvati è un saggio di Primo Levi che analizza la tragedia dei Lager nazisti, il ruolo delle vittime e degli aguzzini all’interno dei campi, l’importanza della testimonianza e il rischio che la memoria della persecuzione nazista venga dispersa o, peggio ancora, travisata o negata.  Rende i lettori consapevoli delle atrocità vissute nel campo descritto come un Inferno dantesco però privo di allegoria, che consuma ed annienta le sue vittime mediante umiliazioni senza precedenti, condizioni di vita disumane, lavoro estenuante, abuso, terrore e totale indegnità.  Ciascun deportato perde inevitabilmente la speranza nella salvezza e viene forzatamente ridotto a perdere la sua umanità.

I SOMMERSI E I SALVATI:  “ La lotta per sopravvivere è senza remissione, perché ognuno è disperatamente ferocemente solo”.

IL TESTO
Nei lager … la lotta per sopravvivere è senza remissione, perché ognuno è disperatamente, ferocemente solo.  Se un qualunque Null Achtzehn vacilla, non troverà chi gli porga una mano; bensì qualcuno che lo abbatterà a lato, perché nessuno ha interesse a che un “mussulmano” di più si trascini ogni giorno al lavoro (con tale termine, “Muselmann”, ignoto per quale ragione, i vecchi del campo designavano i deboli, gli inetti, i votati alla selezione); e se qualcuno, con un miracolo di selvaggia pazienza e astuzia, troverà una nuova combinazione per defilarsi dal lavoro più duro, una nuova arte che gli frutti qualche grammo di pane, cercherà di tenerne segreto il modo, e di questo sarà stimato e rispettato, e ne trarrà un suo esclusivo personale giovamento;  diventerà più forte, e perciò sarà temuto, e chi è temuto è un candidato a sopravvivere.  Nella storia e nella vita pare talvolta di discernere una legge feroce, che suona “a chi ha, sarà dato;  a chi non ha, a quello sarà tolto”.  Nel Lager, dove l’uomo è solo e la lotta per la vita si riduce al suo meccanismo primordiale, la legge iniqua è apertamente in vigore, è riconosciuta da tutti.  Con gli adatti, con gli individui forti e astuti, i capi stessi mantengono volentieri contatti, perché sperano di poterne trarre forse più tardi qualche utilità.  Ma ai mussulmani, agli uomini in dissolvimento, non vale la pena di rivolgere la parola, poiché già si sa che si lamenterebbero…Tanto meno vale la pena di farsene degli amici, perché non hanno in campo conoscenze illustri, non mangiano niente extra-razione, non lavorano in Kommandos vantaggiosi e non conoscono nessun modo segreto di organizzare.
E infine, si sa che sono qui di passaggio, e fra qualche settimana non ne rimarrà che un pugno di cenere in qualche campo non lontano, e su un registro un numero di matricola spuntato. Benché inglobati e trascinati senza requie dalla folla innumerevole dei loro consimili, essi soffrono e si trascinano in una opaca intima solitudine, e in solitudine muoiono o scompaiono, senza lasciar traccia nella memoria di nessuno.